Made in Italy addio? Molti brand italiani sono acquisiti da ditte straniere e questo può essere un danno per la nostra economia. Ma l’Italia ha potenzialità che altri non hanno, dobbiamo rivedere la nostra collocazione nel mondo e studiare nuove strategie per essere pronti alla sfida. Il Made in Italy può essere la chiave ma non questo modello rozzo e vecchio che abbiamo adesso. Bisogna cambiare.
Società cinesi, tedesche, francesi, spagnole, americane sempre più spesso acquistano i nostri brand famosi, firme del Made in Italy. Colossi della nostra economia che prendono il volo cambiando improvvisamente bandiera. È proprio così? Made in Italy addio? Prendete il caso della Stellantis, la ditta olandese che ha ereditato la FCA (exFiat) e la PSA e tutte le loro produzioni. Producono in Serbia, Polonia, Turchia, Spagna, Francia e nel mondo e tendono a non produrre più in Italia.
La sede della società è in Olanda, perché si pagano meno tasse. Ma allora il problema è politico. Che esiste a fare l’Europa se i paesi membri non hanno lo stesso regime fiscale e si fanno concorrenza tra loro? Possono Olanda e Lussemburgo sottrarre azienda all’Italia per questo motivo? Chiaro che non può durare.
Per anni Fiat ha goduto di finanziamenti pubblici cospicui per problemi occupazionali. Poi un bel giorno decide legittimamente di fondersi con marchi esteri e di cambiare ragione sociale e sede fiscale. E i finanziamenti degli Italiani? Che fine fanno? E gli operai, i tecnici, gli impiegati? Soldi e tempo sprecato.
Sempre più marchi sono passati in mano straniera, ma anche il mondo sta cambiando, i confini hanno ancora un senso?
Intanto continua a crescere la lista delle aziende italiane vendute all’estero. Realtà imprenditoriali che finiscono per perdere la loro identità (e spesso anche i poli produttivi). Negli ultimi anni oltre 500 marchi italiani sono passati in mano straniera. E a ogni nuova acquisizione estera si ripropone, con sempre più urgenza, il quesito sulle conseguenze di questa svendita del patrimonio imprenditoriale italiano.
Cito alcune di queste aziende che hanno dovuto cambiare bandiera: Buitoni, Parmalat, Santarosa, Valentino, Telecom, Peroni, Fiorucci, Algida, Carapelli, Fendi, Safilo, Pininfarina, Italcementi, Pirelli, Bulgari, Loro Piana, Cova, Gucci, Versace, Bottega Veneta, Richard Ginori, Pomellato, Brioni, Poltrone Frau, Krizia, Goldoni, Grom, Fastweb. Abbiamo ceduto perfino i nostri club di calcio: Inter, Milan, Fiorentina, Bologna, Roma.
La politica non sembra in grado di contrastare questo fenomeno, anzi sembra aiutarlo
Possibile che la politica non si accorga di niente? Non comprenda delle continue difficoltà, degli impedimenti, delle disparità che un’azienda che sta in Italia deve affrontare per competere sui mercati internazionali? Perché non si affronta questo argomento invece dei rave party o del ponte sullo stretto? Se si vuole aiutare la nostra economia bisogna cambiare strategie e avere al governo gente capace e responsabile. Non pronta solo a genuflettersi a Golden Sachs o altre imprese multinazionali. Ai Fondi di investimento e banche che si stanno comprando tutto quello che c’è di buono da comprare in Italia.
Stiamo perdendo importanza e diventando sempre più marginali
Stiamo perdendo aziende, posti di lavoro e capitali. Ce ne rendiamo conto? Ma non è l’unico segnale negativo. O comunque che induce a riflessioni su come cambiare la nostra economia. Stiamo diventano un paese ancora più marginale industrialmente ed economicamente. Le regole fiscali del passato devono essere cambiate. Se vogliano diventare noi un polo attrattivo per le industrie, o per i pensionati d’Europa in cerca di opportunità per investire, dobbiamo cambiare politica fiscale. Se vogliamo diventare un polo turistico allettante dobbiamo dare facilitazioni a chi porta denaro. Abbiamo potenzialmente molto da offrire ma governi troppo asserviti ai poteri esteri, troppo compiacenti.
La delocalizzazione delle imprese italiane è l’altro aspetto
Ci sono altri campanelli d’allarme. Il malessere della nostra economia ha altri sintomi. Ci sono, per esempio, oltre 35.000 aziende italiane, con partecipazioni all’estero, di fatto “delocalizzate” per quanto riguarda la produzione, portata al di fuori della Penisola. Di queste, un numero spaventa molti ma al tempo stesso ne incoraggia altri a seguirne le gesta. Un +8,3% ovvero la crescita del loro fatturato dovuto per lo più a minori costi fissi. Una percentuale che, in termini assoluti, può essere tradotta in un giro di affari di oltre 40 miliardi di euro.
Ovvero se vuoi resistere e avere interesse a continuare il tuo lavoro, devi delocalizzare. E che si fa per impedirlo? Si abbassano le tasse alle imprese? No. Si mantiene alto il nostro debito pubblico, sul quale paghiamo 100 miliardi l’anno di interessi alle banche e ai fondi d’investimento esteri. Restiamo schiavi delle loro decisioni. Sono loro che stabiliscono il ruolo dell’Italia neanche più gli Italiani e i loro governi. Per questo il 60% degli Italiani, che lo hanno capito, non vanno più a votare.
A che serve? Tanto non decidono più i governi. Ovvio che non si può lasciare che questo succeda ancora a lungo. Bisogna cambiare ma per cambiare serve gente onesta, competente, che sappia dove mettere le mani. Non che si limiti a provvedimenti nel breve periodo ma con strategie di lungo periodo.
Come si ristruttura, come si inverte il senso di marcia, come si ricostruisce il ruolo dell’Italia?
Intanto crescono le vertenze che coinvolgono dipendenti e aziende in fuga. Quando sento gli operai che reclamano il diritto al lavoro mi sento in pena. Hanno ragione ma se l’imprenditore trova svantaggioso produrre in Italia chi lo può costringere? Arcelor Mittal ha resistito un po’ poi ha mandato a ramengo l’ex Ilva. Non saremo più un polo siderurgico, hanno deciso che lo siano altri. Potrebbe anche non essere un male se si decidesse che fare di Taranto e di quelle famiglie che lavoravano nella fabbrica. Dove sono le idee, le strategie, per fare dell’Italia un paese ad attrattiva turistica mondiale? Arte, moda, gastronomia, spettacolo, cultura, artigianato, costruzioni, tecnologia possono sostituire la siderurgia, le automobili e la grande distribuzione? In parte forse. Ma dove sono le idee per tentarlo?
Auto, siderurgia, agricoltura tradizionale, trasporti: tutto cambia e il futuro disegna un mondo con meno occupati e più cervelli pensanti
Le auto non sono il futuro. Né quelle a benzina, neanche quelle elettriche e forse nemmeno quelle a idrogeno. In futuro ci si muoverà con i droni, con il car sharing, con treni super veloci. Non so come ma certamente non più con le auto. Le fonti energetiche fossili sono destinate a finire e il nucleare non può sostituirle. Troppo tempo e denaro ci vuole per costruire le centrali.
I tempi lunghi, il continuo pericolo e poi lo smaltimento delle scorie, sono tutti problemi che non possiamo risolvere. Nessuno ci pensa, neanche chi di dovere, ma ancora sono un problema irrisolto le scorie delle vecchie centrali, figuriamoci per le nuove. La fusione a freddo nucleare, più sicura, è ancora al di là da venire. Da un lato si demonizza l’imprenditore che scappa per ingraziarsi i prossimi disoccupati ex operai. Dall’altro non si sa che fare per il lavoro e si ripropongono vecchi schemi sperati.
In futuro ci sarà sempre meno occupazione, secondo il modello tradizionale
Per questo si devono varare politiche assistenziali per dare alle famiglie di che vivere. L’idea del reddito di cittadinanza era giusta, tutti i paesi occidentali la applicano, così come quella del salario minimo. Altrimenti chi comprerà i prodotti del futuro? Occorre una trasformazione culturale complessiva. Basta con certi lavori massacranti e superati. Ci vuole più attenzione per il divertimento e la vacanza. Nel mondo ci saranno sempre più paesi destinati a produrre e paesi destinati ad occupare la fascia delle vacanze, della cultura, del divertimento. L’Italia è destinata ad essere tra questi ma bisogna attrezzarsi. Difendendo la nostra identità.
Il futuro Made in Italy sarà identità di bellezza, arte, cultura, spettacolo, divertimento, vacanza, piacere, gusto
Questo deve essere il Made in Italy in prospettiva. Conoscenza, cultura, saper fare, creatività, identità. Si andrà in Italia per vivere bene, godere, imparare, divertirsi e si dovrà spendere per vedere Venezia, Firenze, Roma, Napoli.
Per vivere una settimana come principi, per godere della gastronomia, dei vini, dell’arte, della bellezza, del paesaggio. I nostri Marchi possono essere stranieri e nessuno può farci niente ma chi in quelle aziende crea, pensa, produce sarà sempre un italiano. Chi sa come si fa, sarà sempre un italiano.
Allora attrezziamoci anche da noi, per dare al Made in Italy un altro significato. Qualcosa che si fa con la identità e creatività degli Italiani. Anche se materie prime come cotone, ferro, acciaio, legno, gas ed energia elettrica, argento e oro, caffè, cacao, olive, cosce dei maiali, bistecche dei bovini, latte arriveranno da altri Paesi.
Il lusso sarà il nostro mercato più ambito
Non importa da dove. Se non vengono da noi resteranno materiali informi, in Italia diventano prodotti di lusso. Se il prodotto diventa Made in Italy, è perché qui nasce alla fine. Qui si sa come assemblare, trasformare materiali informi in prodotti di lusso. Gli yachts, i tetti fotovoltaici, gli abiti eleganti, gli orologi in stile, le calzature sopraffini. Noi produciamo alimenti unici, pietanze insuperabili e ricercate. Questo lusso il mondo cerca e cercherà sempre di più.
Chi potrà offrire i broccati e i damascati per allestire i set delle serie televisive sulla Regina Vittoria d’Inghilterra? O su Luigi XIV o su Carlo V, alle produzione cine televisive? Chi se non le produzioni italiane di stoffe? Riparare ma anche arredare i palazzi principeschi del Brunei o di Abu Dhabi? O anche la corte d’Inghilterra o la Casa Bianca? O la Reggia del Re dell’Arabia Saudita o del magnate dei diamanti di Anversa. Chi lo potrà fare se non gli artigiani del lusso italiani?
Chi potrà allestire tavoli e mobili realizzati con disegni rinascimentali e pietre colorate per il Guggenheim Museum se non i laboratori fiorentini? O realizzare a mano scarpe raffinate e su misura, se non i calzolai marchigiani. Chi rifornirà i ristoranti del mondo di Aceto balsamico tradizionale invecchiato 30 anni, se non le acetaie di Modena?
L’Italia deve capire quale sarà il suo ruolo e il suo posto in Europa e nel Mondo
I costi aziendali nel mondo cresceranno. Le produzioni si sposteranno dove la forza lavoro viene sfruttata e costa meno. Non riusciremo a debellare questo sopruso in poco tempo. Dovremo dare a tutti il tempo di crescere e di vivere il proprio illuminismo e l’ascesa alla consapevolezza per la difesa dei propri diritti. Ora c’è da salvare l’umanità dalla possibile guerra e dal disastro del cambiamento climatico. Ma anche da dare all’Italia una prospettiva chiara, possibile, certa di quale sia il suo ruolo futuro nel mondo. Di come si deve stare in Europa, di cosa difendere e cosa cambiare, anche a costo di duri sacrifici. Dipende solo da noi.